Categorie Cannabusiness

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Come la cannabis light ha danneggiato gli spacciatori. Uno studio

Sulla carta, la cannabis light in vendita in Italia può essere usata solo per scopi “tecnici” o “collezionistici”. Di fatto, è abbastanza ovvio che quasi tutti gli acquirenti la fumino. Con livelli di Thc (il principio attivo psicotropo) inferiori allo 0,6%, ma livelli di Cbd (che ha effetti rilassanti ma non ‘sballa’) a volte superiori al 20%, il prodotto non può essere considerato una droga ma offre comunque quello che molte persone, soprattutto ultraquarantenni, cercano nella marijuana, come ad esempio combattere l’insonnia o l’ansia.

Con i vantaggi di evitare effetti stupefacenti magari sgraditi e di non doversi rivolgere al mercato illegale. A questo proposito, è inevitabile chiedersi quanto grande sia la fetta di giro d’affari che la cannabis light ha strappato agli spacciatori. Episodi di cronaca come quello avvenuto a Monterotondo, dove alcuni mesi fa un pusher incendiò un negozio di canapa reo di fargli concorrenza, dimostrano che la questione c’è. Tre ricercatori italiani hanno provato a dare una risposta con quello che è il primo studio mai attuato in merito.

Su quali basi è stata svolta la ricerca

Vincenzo Carrieri e Francesco Principe, del dipartimenti di Scienze Economiche e Statistiche dell’Università di Salerno, e il collega Leonardo Madio, dell’Università di York, hanno incrociato i dati forniti dalla polizia sui sequestri di derivati illegali della cannabis su base provinciale con quelli sulla presenza di grow shop e negozi che vendono cannabis light a partire dal dicembre 2016, quando è entrata in vigore la legge che ha consentito la vendita di infiorescenze con una percentuale di Thc tra lo 0,2% e lo 0,6%, al marzo 2018.

I dati sono stati ponderati sulla base di fattori come la presenza di porti, dove avvengono i sequestri più ingenti, e condizioni ambientali che favoriscono la coltivazione di cannabis e quindi l’approvvigionamento, a partire dalla presenza di corsi d’acqua. I numeri che contano sono soprattutto quelli raccolti a partire dal maggio 2017, quando era diventato disponibile il primo raccolto successivo a quella che lo studio definisce “liberalizzazione involontaria” e la vendita si era allargata dai negozi specializzati ai tabaccai e alle erboristerie, rendendo il mercato più omogeneo.

Di quanto è calato il mercato illegale?

“L’Italia è un caso di studio interessante per via della presenza di una forte criminalità organizzata” che trae la maggior parte dei suoi guadagni dalla vendita di stupefacenti – sottolinea lo studio – un mercato dove marijuana e hashish contano per il 91,4% del totale delle sostanze smerciate, per un giro d’affari pari a 3,5 miliardi. Ancor più interessante, aggiungono i ricercatori, è che la cannabis light è un “sostituto imperfetto” della cannabis psicoattiva ma, nondimeno, è riuscito a diminuire il giro d’affari dello spaccio in un Paese che ha tra i consumi più elevati d’Europa (il 19% dei giovani adulti, ovvero le persone tra i 18 e i 34 anni, contro una media Ue del 13,9%).

“Abbiamo scoperto che la legalizzazione della cannabis light ha portato a una riduzione tra l’11% e il 12% dei sequestri di marijuana illegale per ogni punto vendita presente in ogni provincia e a una riduzione dell’8% della disponibilità di hashish”, si legge nello studio, “i calcoli su tutte e 106 le province prese in esame suggeriscono che i ricavi perduti dalle organizzazioni criminali ammontino a circa 200 milioni di euro all’anno” in una forchetta stimata tra i 159 e i 273 milioni. Si calcola inoltre che a ogni negozio che vende cannabis light corrisponda un calo dei sequestri di cannabis illegale pari a 6,5 chili all’anno.

Un’inattesa “sostituzione”

I numeri possono sembrare non così significativi, se paragonati a un mercato da 3,5 miliardi. I ricercatori sottolineano però che il vero impatto potrebbe essere molto più vasto, dal momento che la marijuana sequestrata rappresenta solo una parte minoritaria di quella disponibile sul mercato e che la cannabis light è un “sostituto piuttosto imperfetto della marijuana disponibile sul mercato illegale”, avendo una percentuale di Thc minima e, quindi, “effetti ricreativi molto più bassi”. Nondimeno “le stime indicano che anche una forma lieve di liberalizzazione può soddisfare lo scopo di ridurre la quantità di marijuana spacciata e i relativi ricavi delle organizzazioni criminali”.

Esiste quindi un inatteso “effetto di sostituzione” nella domanda tra cannabis light e cannabis da strada, il cui contenuto di Thc è aumentato negli ultimi anni, con una media del 10,8% e picchi del 22%. Ciò lascia intendere che ci sono consumatori che preferiscono il prodotto legale proprio in virtù degli effetti più blandi. Questo, affermano i ricercatori, “suggerirebbe alla politica un approccio misto alla legalizzazione, che da una parte dirotti i consumi illegali verso quelli legali, danneggiando il mercato nero, e dall’altra riduca le esternalità negative associate con l’uso e l’abuso di queste sostanze”.

Dove orientare ora la ricerca

La ricerca sul settore è però appena iniziata e non offre elementi sufficienti a stimare i possibili benefici di una legalizzazione più ampia, sul modello di Canada e alcuni Stati degli Usa. Studi futuri, conclude il rapporto, “potrebbero indagare, nel contesto italiano, l’efficacia di questa blanda forma di legalizzazione sui crimini violenti e non violenti”: “Questo aspetto assume, per esempio, una rilevanza nel lungo termine, con una più efficiente allocazione delle risorse della polizia verso la repressione e la prevenzione di altri crimini”. Infine “sarebbe positivo stimare le entrate fiscali potenzialmente perdute”, il che “potrebbe essere un altro argomento a favore della liberalizzazione soprattutto in tempi, come quelli attuali, di stretti limiti alla politica di bilancio”.

Fonte: Agi

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